Mercoledì 7 aprile, è andato in onda una puntata di Capolavori italiani in cucinache ha avuto per protagonista un piatto che ha da tempo un’immagine legata a rosticcerie e salumeria più che da alta cucina: l’Insalata russa. Eppure la sua storia è piena di verità in contrasto tra loro, tanto che è quasi impossibile isolare una ricetta sostanzialmente valida per tutto e per tutti. Se ne sceglie una versione, italianissima nel nostro caso, piemontese in particolare, a patto di sapere che ne esistono diverse altre al punto che per noi diventa arduo pensare siano anch’esse delle insalate russe.
In un libro recente, Quando un piatto fa storia per Phaidon-Ippocampo, i cui autori non sono per nulla sfiorati dal dubbio, tutt’altro, si celebra esclusivamente un cuoco russo di radici belghe, Lucien Olivier, che dal 1864 – e fino alla sua scomparsa nel 1883, quarantacinquenne – fu lo chef del lussuoso Hermitage a Mosca, ristorante che non sopravvisse alla Rivoluzione sovietica del 1917. Lucien era così innamorato e geloso della sua insalata da averla sempre preparata di persona in una stanza a lui riservata, senza assistenza alcuna e senza lasciarne traccia scritta. Morto lui, finito tutto. Per me un genio (ironico).
Trascorso ben oltre un secolo, c’è chi ha messo insieme un elenco di ingredienti che, riassunti, suonano come carne fredda, lingua, salsiccia, prosciutto, gamberi di fiume, aragosta, pernice, fagiano, caviale, tartufi, olio e senape provenzali, di tutto e di più, purché fossero prodotti molto costosi. In comune con anni e versioni ben più vicini e in linea con noi, uova sode e patate bollite, sott’aceti e cetrioli, anche le olive.
La voce narrante in Striscia la notizia è stata quella di Matteo Baronetto, piemontese classe 1977, per una ventina d’anni l’ombra di Carlo Cracco tra Langhe e…
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