Ai francesi dobbiamo i Mondiali di calcio, il Pallone d’oro e le Olimpiadi moderne; l’alta moda e il cinema, l’haute cuisine e lo champagne. Chi altri al mondo poteva inventare una guida ai ristoranti?
Nessuno. E così ecco chef e ristoratori fare i conti con la Michelin e il suo firmamento di Stelle, una, due o tre. Prima edizione in Francia nel 1900, i “macarons” dal 1926. Per capire la grandezza di questa pubblicazione, basta un dato: a inizio XX° secolo, in tutto l’esagono, circolavano meno di tremila vetture. Tiratura d’esordio: 35mila copie, in pratica dodici volte tanto. Clamoroso ma logico: se non promuovevano il trasporto su gomma chi le produceva, chi altri?
In Italia sarebbe arrivata nel 1956 e, partendo dall’arco alpino, nemmeno sfiorava Roma. Si fermava a Siena, col viaggio completato l’anno seguente. E le Stelle? A partire dal 1959, ottantaquattro. Ne resiste una appena, Arnaldo a Rubiera in provincia di Reggio Emilia, e ha del clamoroso visto quante ne sono finite nel dimenticatoio, chiuse, soppresse, sparite. Nemmeno esistono in Google. Già è tanto se alcune sopravvivono, sessantatré anni dopo quello che, con gli occhi di oggi, possiamo considerare il loro quarto d’ora di notorietà.
L’importanza della Michelin è tale che non puoi ignorarla, criticarla sì a patto di sapere mettere il suo firmamento (g)astronomico nella giusta prospettiva ed esserne in un certo senso all’altezza. Troppo facile amarla quando ti premia e tacciarla di ignoranza quando ti retrocede. Roba da prima elementare, anche perché, quasi sempre, coloro che hanno deciso di portarti in alto, sono esattamente gli stessi che ti stanno ributtando giù…
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