Anche se sono nato a Milano, marzo 1955, in via Napo Torriani, non mi sento affatto milanese. Successe anche ai miei genitori, mia madre da Cantù, mio padre da Trento. Sono stati genitori che non mi hanno mai spinto a godere dei piaceri della tavola. C’era sempre qualcosa che premeva loro di più e non era mai la conoscenza di un piatto, di un sapore, figuriamoci di un ristorante.
Mia manna Graziella ha sempre accusato mio padre di non averla mai invitata a cena solo loro due e di certo è stato così. Rolly ha sempre cercato un pubblico che lo applaudisse ascoltando le sue storie, figuriamoci se perdeva tempo in una cenetta romantica a due.
Di mia madre ricordo invece che si raccomandava con le amiche, a casa delle quali sarei andato a giocare o studiare, magari fermandomi a cena, di farmi bere poca acqua o mi gonfiavo e naturalmente vietati i bis a tavola. Ma tutte quelle raccomandazioni non potevano nulla contro la mia curiosità culinaria: sono sempre stato l’idolo di mamme, nonne e zie. Seduto, piatto davanti e forchetta in mano davo sempre il meglio di me e chi aveva lavorato per quel pranzo o quella cena si sentiva gratificato dal mio appetito.
La parola “dieta” per me non esisteva, anche se a 16 anni venni mandato da una dottoressa in piazza Castello a Milano perché mi facesse perdere quei due o tre chili di troppo che, secondo mio padre, rallentavano la velocità della mia corsa. Come mia madre mi avrebbe voluto in qualche modo artista, mio padre mi sognava campione sportivo. Il talento c’era, ma mancava la parte più importante: la… Continua a leggere qui.