Un giorno mi chiesero quale sia il mio menù ideale, quello da consumare la sera prima di salire in cielo (almeno spero, in cielo). Per me sono cinque portate: baccalà mantecato, risotto alle cipolle, il rognone in qualsiasi modo e il piccione arrosto prima di una torta di mele. Adoro tutto quanto accolga in sé il pomo del peccato e mi viene sempre difficile scegliere una preparazione precisa, ma per più motivi, stringi stringi, alla fine la scelta cade sempre sulla Tarte Tatin e su una ben precisa, quella di Pietro Leemann.
Ho avuto la fortuna di conoscere questo ticinese di madre valtellinese quando aveva appena aperto il suo ristorante in via Panfilo Castaldi a Milano, era il 1990. Lo battezzò Joia per giocare ovviamente sull’allegria che il cibo deve procurare. E aggiunse sotto tre parole: Alta cucina naturale.
Pietro è vegetariano, ai limiti del vegano, ma è riduttivo considerare la sua tavola come vegetariana in senso stretto. Scuola Marchesi, all’inizio, per rassicurare chi si presentava da lui, presentava sformati di verdure con forme carnivore, come la coscia di pollo. Ma in carta trovavi anche il pesce vero e chi si stupiva della scelta si scordava che al centro del suo lavoro c’era la naturalità del prodotto e non tanto la sua natura intrinseca.
Scollinato il Capodanno del 2000 Leemann decise di iniziare un percorso che l’avrebbe portato sempre più in alto: ed ecco sparire la carne e il mare e, in seguito, pure l’uovo di gallina. Precisazione doverosa, perché l’Uovo apparente che trovi oggi è, in realtà, a base di gelatine di scuola cinese. E poi, naturalmente, c’era la Tatin, strepitosa, addirittura in due versioni. Al dessert nato in Francia, e quindi un concentrato di…
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