Il nome di quel paese mi avrebbe dovuto mettere sull’avviso. Se ne stava nel Delta del Rodano in piena Camargue, in un’area di totale libertà con zingari, i loro cavalli, le loro danze, le saline color rosa e il volo di uccelli incredibili. Ma si chiamava Aigues Mortes, Acque Morte, e qualcosa che non andava da qualche parte doveva esserci, oltre alla strage di lavoratori italiani a metà Ottocento. Il nome, in effetti, si riferiva alla acque stagnanti e malariche di una zona molto paludosa, imprigionata prima del mare aperto.
Come vi sono capitato è frutto di una storia incredibile che mi ha segnato profondamente, nel bene, per fortuna.
Un giorno un collega mi chiese perché doveva andare nei ristoranti che io consigliavo nelle mie rubriche. Gli risposi che tra critico e lettore può instaurarsi un rapporto di fiducia. Uno legge, magari per caso, una recensione, scopre che in un determinato posto in cui dovrà recarsi di lì a poco si cucina un piatto gradito, prenota, ci va, mangia e gode. E generalmente a quel punto è fatta. Tu diventi il suo suggeritore.
Ad Acque Morte però non mi spinse nessuna lettura. Era il 1988, avevo lasciato la mia prima moglie da un anno e non avevo assolutamente idea di dove avrei trascorso le vacanze. Sapevo che il Giornale mi avrebbe mandato a giugno in Germania per seguire gli Europei di calcio. Cominciava a diventare forte il legame con la madre dei miei figli, Cinzia Maltese, che sarebbe salita in cielo 15 anni dopo. Ma questo appartiene a un altro film.
Una sera Cinzia e io cenammo in un bellissimo appartamento di amici in corso Venezia, una di quelle case che mai e poi mai mi sarei potuto permettere. La padrona di casa, a un certo punto, chiese a tutti dove avrebbero trascorso le vacanze e noi rispondemmo “In Francia!”. Non sapevamo però dove. Ci eravamo ripromessi al…
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