Un paio di anni fa Marina Malvezzi mi chiese di raccontarmi nel suo sito Mangiare Bene, raccontarmi da ragazzo appena maggiorenne. Riprendo quel pezzo perché apre perfettamente il sito che porta il mio nome e il mio cognome.
Da piccolo piccolo sognavo di fare il pompiere o il vigile urbano. Da piccolo e basta l’esploratore, e una tata, ogni qual volta lo dicevo, rideva e chiosava: “l’esploratore sì, ma di cucine”.
Tanto mi piaceva viaggiare (e già andare da Milano a Levanto per me era un’avventura, allora bastava mangiare trenette al pesto per vivere i gusti etnici) tanto mi gasava cucinare e mangiare.
Esplosi di gioia quando nel febbraio del ’74, anni compiuti 19, ai mondiali di sci di St. Moritz scoprii che un signore di nome Bibbo non era solo l’inventore di certi regolamenti delle gare di sci, ma anche il proprietario di due alberghi nel nord della Svezia, ad Are nello Jamtland.
Lo cercai e gli chiesi se potevo andare a lavare i piatti da lui. Affermativo. Tre anni di università, tre estati all’hotel Tott a lavare i piatti ma anche a guardare da vicino un vero cuoco all’opera. Non che Ernst, biondo, simpatico e tedesco, fosse un mostro di bravura.
Gli si poteva invidiare la facilità di portarsi a letto le ragazze, letteralmente tutte, non tanto quella di preparare manicaretti. Il suo risi e bisi era assolutamente improponibile e il palombo, tutta panna, cognac e scorzette di limone, un qualcosa di indefinito, però ero mille e mille km lontano da Milano e non c’era traccia di genitori pronti a dirmi cosa dovevo fare, naturalmente per il mio bene.
Gli italiani piacevano, ma almeno per me non nel “sesso senso”, piacevano in generale perché gentili, sorridenti, vivi. Al di là di pentole, piatti e posate da lavare, gli altri che lavoravano lassù non perdevano occasione per chiedermi di preparare spaghetti al pomodoro. Per loro erano sinonimo di sole e di vacanze. Due spaghi oggi e due domani, pensavo di avere capito cosa avrei fatto da grande: il cuoco in Svezia.
Tornato a Milano mi informai su eventuali corsi di svedese alla Statale ma c’era un però: mi piaceva pure fotografare e in fondo frequentavo già da alcuni inverni una redazione, quella di un periodico di sport invernali. Cosa fare? Boh.
Per farla breve, una fine primavera riuscii a fissare due appuntamenti all’opposto tra loro. Uno con Mario Gherarducci, redattore capo della redazione sportiva del Corriere della Sera, e un secondo con Alfredo Valli, il grande interprete della cucina milanese.
Al primo dissi che ero pronto a coprire eventuali vuoti estivi, al secondo che da settembre avrei pelato patate per lui. Il primo mi chiese se avevo già prenotato le vacanze e mi scappò di dire “dovrei partire dopodomani per la Svezia”, il secondo si limitò a un “rivediamoci dopo l’estate”.
Morale? Gherarducci mi liberò di ogni impegno però mi chiese se avevo qualcosa di scritto in copia originale da lasciargli così se lo leggeva durante l’estate. Detto e fatto, gli portai alcuni servizi sulla nazionale italiana di sci, compresa un’intervistona al nuovo allenatore di Thoeni e Gros, poi partii per il Grande Nord.
Il Tott Hotel oggi, 174 stanze per un totale di 752 letti, a occhio almeno tre volte più grande di quello degli Anni Settanta raccontato in questo amarcord
Lassù ricevevo in abbonamento il Corriere e un giorno leggo che quel coach innevato aveva idee chiare su come far vincere tutto ai fenomeni della Valanga Azzurra. “Strano, le stesse cose dette a me e scritte con le stesse parole”. Guardai la firma, trovai una sigla: P.M. Credo che il mio stupore fu pari a quello del primo uomo che scoprì l’acqua calda.
Vivevo due realtà parallele: per i miei colleghi svedesi ero un lavapiatti che diceva di fare il giornalista, a Milano invece risultavo un apprendista giornalista che sperava di diventare un cuoco stellato. Da Valli non andai più. In Svezia avevo scommesso con una ragazza di nome Gilla che nel febbraio del ’79 mi sarei presentato al Tott Hotel come inviato di sci per la coppa del mondo, non potevo certo chiudermi in una cucina e perdere la faccia con un’amica, quella in particolare.
Mi ripresentai invece da Gherarducci per ringraziarlo di avermi pubblicato quella intervista. Mi chiese cosa ne sapevo di calcio “perché c’è già chi si occupa di sci”. Gli risposi che tifavo Inter. Rise, “Peggio per te” e mi accreditò per Brescia-Como di serie B.
Partitaccia, finì zero a zero ma quella domenica di fine estate ’78 capii una cosa: che se avessi fatto il giornalista sportivo, fatto bene intendo, avrei girato il mondo e mangiato ai quattro punti cardinali. Come cuoco sarei invece rimasto chiuso in eterno in una cucina, magari anche a preparare piatti validi ma di certo, visto il mio carattere, a incazzarmi con quei clienti dalle mille capricciose richieste. Non sono affatto paziente.
Riposi il tocco in un cassetto e mi concentrai sullo sport e il Corriere. E a febbraio ’79 mi presentai al Tott. Il caso volle che il tavolo della stampa italiana fosse stato affidato proprio a Gilla. Quando si chinò per l’antipasto, la guardai con il più largo dei sorrisi. Lei quasi fece cadere il vassorio “Paooolooooo! You are here!”. Scommessa vinta e con essa Gilla.
Seguì, per la prima volta, quello che è facile immaginare, ma non solo: insegnai ad Ernst i veri Risi e bisi, poi camminai nella notte tra i pini con lei, bosco polare, bosco innevato, e quando arrivai in Italia “vinsi” una straordinaria broncopolmonite. Ogni gioia ha il suo prezzo.
Se scrivo di cucina non è per Gilla o Ernst, per Valli o Gherarducci, scrivo di cucina perché rappresenta la perfetta sintesi di quello che sognavo da ventenne: scrivere, fotografare, viaggiare, mangiare, bere, anche cucinare perché quei miei colleghi che reputano i cuochi dei nemici non hanno capito nulla. Occupiamo lo stesso spazio ma su due lati opposti.