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Appassionato di fotografia, giornalista e cuoco mancato, Paolo Marchi ha raccontato la sua vita di vorace onnivoro in XXL, 50 piatti che hanno allargato la mia vita (Mondadori). Vent’anni fa ha cofondato con Claudio Ceroni Identità Golose, il congresso italiano di cucina, pasticceria e servizio di sala, che ogni primavera ospita a Milano i protagonisti del pianeta gola. Tema dell’edizione 2025 è stato Identità Future: 20 anni di nuove idee in cucina.
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La scelta di questo titolo ha sottolineato come la manifestazione “fin dalla sua nascita abbia guardato avanti, anticipando tendenze e rifiutando l’immutabilità”. Potresti riassumerci lo stato dell’arte nel campo della gastronomia che ne è uscito?
Ho riscontrato una grande energia propositiva. È sembrato che nessuno lasci più nulla al caso, nessuno che proceda per forza d’inerzia come se si desse per scontato che il locale si riempia da solo perché tutti dobbiamo mangiare. I problemi che attanagliano il mondo hanno messo le ali ai pensieri di chef e ristoratori.
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Sul palco sono tornati da oltreconfine tanti protagonisti della scena internazionale, da Ferran Adrià a Janaina Torres, Jeremy Chan, Nicolai Nørregaard, Andreas Caminada, in un confronto virtuoso fra
tradizioni e pratiche con identità diverse. Quali stimoli ne sono nati? Maggior valore identitario delle tradizioni locali o un’evoluzione verso l’integrazione tra i saperi?
Credo che queste presenze abbiano fatto capire che l’alta cucina creativa e la celebrazione della biodiversità appartengono a ogni Paese del mondo, sono finiti i tempi del fine dining, appannaggio solo della Francia e di Londra e New York. Il mondo è esploso e nessuno può fare flanella…
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Per l’Italia, fra i tanti, anche Antonino Cannavacciuolo, Massimo Bottura con la sua Francesca Family, Antonia Klugmann, Massimiliano Alajmo: come si colloca la nostra cucina in questo contesto internazionale e dove sta andando?
Ovunque amano i nostri piatti, la richiesta è enorme. La stessa pizza è diventata una pagina del ‘fine dining’. Purtroppo, per quanto vi siano maestri che aprono ristoranti in ogni continente, restano attuali i problemi di una formazione scolastica mediocre e di un peso incredibile delle tasse. Siamo ancora lontani dal capire che il capitolo ristoranti top può fare da traino economico all’intero settore turistico.
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Parliamo della sezione ‘Identità Vegetali’: avete registrato una richiesta green in forte ascesa nel mondo della ristorazione?
Sì, sia di ristoranti vegani o vegetariani, ma anche sempre più di ristoranti che propongono anche un menù degustazione ‘veg’ oltre a quelli con pesce o carne. Però è giusto segnalare che aprono sempre più insegne carnivore, con la carne cotta alla brace con una perizia incredibile. Sono due estremi di qualità.
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Ogni anno, da vent’anni Identità Golose porta a Milano i protagonisti della gastronomia mondiale, registra e anticipa le tendenze, presenta giovani talenti. Perché hai scelto proprio Milano?
Mi ritengo fortunato di essere nato qui e di aver sviluppato, fino ad averlo fatto diventare il mio lavoro, il mondo della cucina, perché Milano è la città meno tradizionalista che abbiamo. Vive di creatività in ogni settore, moda, design… e a differenza delle altre grandi città italiane, che se parli male di una carbonara o di una pizza Roma e Napoli si offendono, a Milano è solo un giudizio tecnico sulla cottura di un risotto, e i milanesi non si sentono scossi per questo. Mi stupii moltissimo quando iniziai a presentare Identità che tanti mi chiedevano: “Perché la farai a Milano?” e nel tempo ho capito che il resto d’Italia è legato alle proprie radici e lì nessuno aveva mai pensato di chiamare il mondo per confrontarsi sui migliori chef italiani. Quindi questa città mi ha dato tantissimo, ma all’inizio mi ha obbligato a spiegare perché.
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Come descriveresti oggi il panorama gastronomico milanese, la sua complessità di cucine dal mondo?
Da una parte Milano continua a confermarsi la città dove parte ogni tendenza e ogni moda, sull’onda dell’Expo 2015 è diventata addirittura una città che propone delle ottime pizze. Prima non era così, probabilmente perché ai milanesi piace far sapere che hanno i soldi e a loro piace spenderli. Quando la margherita gourmet ha iniziato a costare 20/25 euro i milanesi l’hanno adottata, il problema adesso è che la cucina giapponese, la pizza e altre realtà hanno frenato la diffusione della vera cucina meneghina. Tanto che è molto più facile mangiare il riso del sushi e del chirashi che un bel risotto allo zafferano. La vera sfida adesso sarebbe riportare in vita i piatti della nostra tradizione.
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Di quali storie, luoghi e personaggi parleresti?
Io non amo le vie che hanno successo di massa come Brera, i Navigli e Corso Como, che diventano luoghi caotici per ospiti e per turisti a cui interessa di più far baccano che concentrarsi sui veri aspetti culturali e gastronomici. Io andrei a cercare in periferia, in quartieri che ancora non sono stati scoperti come tutta la zona alle spalle della Fondazione Prada.
Gualtiero Marchesi è stato il grande maestro che ha aperto una nuova via alla cucina. Molti sono oggi i suoi eredi che conduconocon successo la continua innovazione gastronomica nei loro ristoranti:chi vorresti ricordare in primi?
Assolutamente Carlo Cracco, che dimostrava già allora, da sconosciuto capo della brigata di Marchesi, una personalità molto forte che lo portava a ‘scontrarsi’ con il maestro nel confronto delle rispettive idee. Mi fa piacere anche ricordare uno come Daniel Canzian, che con umiltà da un anni conduce il suo ristorantealla Chiusa di Leonardo senza cercare gratuiti effetti speciali.
Sono nati nuovi rituali?
Ha avuto un successo incredibile il concetto di ‘Chef Table’, al punto che ci sono sempre più ristoranti che fanno accomodare la gente a dei banconi attorno a chi cucina, tipici delle cucine giapponesi ma che adesso sono riproposti da molti.
Milano si sta preparando ad accogliere nel 2026 le Olimpiadi Invernali. Hai registrato questo fermento?
Sì, anche se da febbraio in poi, a un anno dal suo svolgimento, Milano si interessa a così tante cose che va sempre a finire come con l’Expo del 2015: ci si incendia di passione quando tutto ha luogo, ma prima i milanesi hanno così tanto altro da fare che mettono un po’ in disparte il loro futuro.
Una domanda più personale: che cosa rappresenta per te Milano? Come la vivi?
È la città in cui sono nato, cresciuto e dove da sempre lavoro. Milano per me è tutto e sono orgoglioso di vivere un’edizione Olimpica che la abbina a Cortina, perché mio padre Rolly fu lo speaker ufficiale dei Giochi del 1956, quando io avevo un anno appena e ovviamente non ho memoria alcuna di quelli. Le mie memorie le costruirò con i Giochi Olimpici che verranno.