Se in fondo è facile incrociare nella vita un quarto d’ora di celebrità, il successo duraturo e concreto è sempre figlio di tanto lavoro, di un’idea unica, di un’applicazione costante.
Oggi è facile vedere grandi chef in televisione, sulle copertine dei giornali, nelle pubblicità e nelle aule universitarie a tenere lezioni, cose che, nel secolo scorso, era impossibile anche solo immaginare. Chi conosce poco o nulla di questi chef pensa regolarmente che sia solo una questione di marketing o di raccomandazioni, invece bisognerebbe tener presente che le aziende che investono su un testimonial cercano personaggi veri, che abbiano una storia solida alle spalle, che siano cresciuti nel tempo, guadagnandosi consensi veri e stima sempre maggiori. Mi arrabbio molto quando, chi non sa, sputa sentenze e magari critica secondo luoghi comuni.
Oggi è innegabile che Carlo Cracco sia un po’ ovunque, ma c’era un tempo in cui non solo nessuno lo conosceva, ma, se lo avessi pronosticato grande di lì a poco, ti avrebbero guardato strabuzzando gli occhi.
Carlo è veneto, un vicentino di Creazzo, lì cresce il broccolo fiolaro, che ritroviamo come madeleine in molte sue preparazioni. Ma il primo piatto che lui ricorda come un mezzo incubo è lo Scopetòn, fette di polenta abbrustolita strofinata con aringa affumicata. Nelle case più povere erano soliti appendere l’aringa sopra la tavola e poi ognuno vi strofinava sopra le due fette di polenta, in modo che il mais prendesse il gusto del mare. Piatto più povero non esiste.
Cracco si è consumato le mani con teglie su teglie di polenta e aringhe per perfezionare e rivisitare quel piatto: ricordiamocelo quando qualcuno ci dice che non gli sta…
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