Sono passati più di quattro mesi da quando venne autorizzata la riapertura di bar e ristoranti. Era il 18 maggio, siamo ormai al 22 settembre. Con le inevitabili aeree di scontento, di certo soffre chi ha licenze nei centri storici delle grandi città, tantissimi raccontano di ottime affluenze nonostante i coperti dimezzati e gli stranieri spariti. «Non pensavo proprio», senti dire di continuo e capisci che hanno spostato in avanti l’ora X, quel momento superato il quale dovranno fare i conti con la crisi da pandemia.
Quattro mesi di pieno inatteso, anche di problemi, ma perché, pur continuando a seguire con estrema attenzione l’evolversi del covid, non ci si sforza anche di emettere sorrisi? Siamo in piena guerra mondiale, la terza in pratica, e penso sia difficile salvare la propria testa se la teniamo sempre appoggiata al ceppo del boia. Togliamola da quella scomoda posizione e usiamola anche per arrabbiarci con chi ci governa e amministra e ancora deve capire la forza economica racchiusa in ristorazione e accoglienza.
Un luogo comune da sfatare ad esempio? Credere vi siano posti più puliti e sicuri di un ristorante. Chi lavora in cucina e pasticceria deve lavarsi le mani dopo avere lavorato un ingrediente, e di continuo. E guai credere che siano più sicuri i guanti. Nulla di più pericoloso, vi si accumula di tutto. C’è tanto da fare, guai far niente e credere sia ineluttabile arrivi un autunno nero. Saremo chiamati a costruire il nostro futuro, sarebbe un peccato lasciare che a farlo siano solo gli altri. Il rischio di contagi va preso per le corna.