È sempre difficile sentire gli chef usare la prima persona plurale, il noi. Quasi sempre è una questione di ego smisurato: in francese, in fondo, chef non vuole dire cuoco, bensì capo. E un capo si sente un gallo per eccellenza. Ma in alcuni casi, questo ad esempio, l’uso della prima persona singolare, l’io, è d’obbligo, visto che in cucina ci sono soltanto il cuoco, un lavapiatti e un ragazzo tuttofare.
È stato sempre così sul mare di San Vincenzo, sul porticciolo dove Fulvio Pierangelini ha scandito altissima cucina in splendida solitudine. Certo, al suo fianco c’era la moglie Manuela in sala, ma qualsiasi cosa accadesse, nasceva sempre dall’intuito e dal genio di questo riccioluto romano che il lavoro del padre portò giovanissimo sulla costa maremmana.
Non le spiagge di Donoratico, o i cipressi i di Bolgheri, piuttosto che le colline che danno vita a vini unici, ma la piccola San Vincenzo, città-dormitorio dalla scarsissima vocazione turistica. I più lavoravano in acciaierie, che oggi appartengono al passato, proprio come il Gambero Rosso, il ristorante di Fulvio.
Ci sono locali che sono un po’ come delle orchestre e funzionano da sempre, quale che sia il cuoco, perché situati in indirizzi di grande passaggio. Da lì si passa per forza e ci si ferma per mangiare un boccone, stella o non stella. Altri, invece, devono tutto al genio di colui che, in un certo periodo, ha illuminato quelle stanze. Finito lui, finisce anche la…
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