Non c’è stato mai un peso che andasse bene ai miei genitori. Mia madre mi voleva magro, per poter dire di avere un figlio bello, mentre mio padre voleva che fossi magro perché potessi diventare quel campione sportivo che lui è stato in parte, ma non del tutto.
La prima dieta la feci a sedici anni, imposta ovviamente. La dottoressa voleva farmi scendere da un’ottantina di chili a 72,5. Credo che i genitori, cercando di piegare i figli alla loro volontà, ottengano esattamente l’effetto opposto, a meno di non aver generato delle pecore.
Io non avevo mai dato troppa importanza alla bilancia perché nella testa non ero uno sportivo agonista. Volevo stare bene e assecondare la mia passione: il cibo. Però mi ricordo benissimo la prima volta che il mio peso andò in tripla cifra e questo impressionò anche me.
Lo ricordo come fosse ieri, successe nel luglio del 1988. Uscivo da un inverno difficile, il primo dopo aver lasciato la mia prima moglie. Non avevo ancora chiaro cosa mi riservasse il futuro.
A livello lavorativo, dopo una stagione vissuta seguendo Alberto Tomba sulle piste di tutto il mondo, mi aspettavano gli Europei di calcio in Germania. A differenza di quelli di quattro anni prima in Francia, ai quali l’Italia non si era qualificata – e questo mi permetteva di godermela alla grande – in Germania gli Azzurri c’erano, eccome. Così dovevo fare i salti mortali per sganciarmi da interviste, cronache e pagelle e riuscire ad andare a pranzo o a cena in locali che mi dessero soddisfazione.
Di solito i giornalisti scelgono per mangiare i posti dove sanno che troveranno questo o quel personaggio, oppure per far la cresta sulla ricevuta. Per me i servizi da inviato, invece, erano l’occasione per allargare i miei…
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