Anche se qualche mio collega lo nega, tutti sognano di essere i primi a scrivere di un talento. È bello entrare per caso in un ristorante, senza essere guidato da stelle, articoli o dritte più o meno interessate, e lì iniziare una cena che alla fine ti lascia soddisfatto, non solo come palato, ma anche come giornalista in cerca di primizie. A parte che io sono convinto che è sempre meglio essere i primi, piuttosto che uno del gregge, ma agli inizi il cuoco, come succede in qualsiasi altro mestiere, ha una freschezza che nel tempo viene meno. Non che perda la capacità di lavorare bene, ma, pian piano, gli impegni diventano così numerosi che è fisiologico non possa più dedicarsi al nuovo. Succede anche, ovvio, che qualcuno inizi, a un certo punto, ad andare sul sicuro, un po’ come quei cantanti che azzeccano una canzone e su quella melodia impostano le successive, temendo che nuovi ritmi spiazzino i vecchi fan senza farne guadagnare di nuovi.
Nell’estate del 1992 avrei voluto tanto essere in macchina con Silvio Garioni, inviato del Corriere della Sera, ironico come pochi e sfortunato, perché morì troppo presto, e Roberto Perrone, che nel tempo, sempre al Corriere, sarebbe diventato anche una bella firma golosa. I due avevano seguito una di quelle amichevoli che i grandi club calcistici organizzano durante la settimana in provincia per allenarsi in vista delle grandi partite.
Oggi internet ha praticamente cancellato queste trasferte giornalistiche, si lavora molto di più con i telefonini e con la rete, ma fino ai primi anni del Duemila o ti recavi sul posto o niente servizio. Per evitare tristi panini autostradali o una pizza ben dopo mezzanotte in qualche localaccio milanese, prima di imboccare l’autostrada Torino-Milano, i miei colleghi Silvio e Roberto chiesero al casellante se ci fosse qualcosa in giro di aperto dove fermarsi per un…
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