Nella notizia di Raffaele Foglia, in apertura della newsletter vino di Identità Golose di martedì 15 dicembre, è spiegato bene il filo conduttore di questa uscita, legato al Natale di un anno maledetto, un celebrare quei vini che ci fanno stare bene, che ci fanno ricordare le persone care che magari non sono più qui accanto a noi, bensì in cielo. Vini abbinati a piatti ben precisi per chiudere il cerchio delle emozioni.
Proprio partendo da questa serie di amarcord, mi sono accorto di non averne uno tutto mio. Non eravamo una famiglia di credenti e così non si è mai seguita la liturgia delle varie tavole, leggeri la sera della vigilia per poi andare a messa, il pranzo del 25 ben più ricco e così via.
Non ho nemmeno ricordi di chissà quali esplosioni di felicità gastronomica. Si mangiava, comunque, meglio di quanto non si bevesse, bottiglie scelte da mio padre un po’ a caso. Rolly aveva un grande pregio, che in determinati frangenti diventava pure un difetto: se uno gli era simpatico, qualsiasi cosa facesse, producesse, consigliasse andava bene. Purtroppo valeva sempre, prescindeva dalla qualità. Così cibo e vino raramente erano abbinati con una logica reale.
Più in generale, sia lui che mia madre Graziella consideravano la tavola un luogo di convivialità, a volte pure un palcoscenico. Più parole che bocconi. Io invece sono per mangiare bene, sempre. Invece loro più si avvicinavano al Natale e più mettevano le mani avanti: «A Natale si sta leggeri, mangiamo già troppo tutto l’anno». Frase che gli altri mesi diventava «Mi raccomando, mangia poco».
Mamma aveva un debole il 25: Torta di mascarpone, zola e noci, quindi pandoro con mostarda di Vicenza e mascarpone. Aveva la mia totale approvazione. Però arrivavo a quelle bontà dopo avere fatto buon viso a cattivo gioco. Sono uno che se si mette in testa un determinato modo di desinare (ma in fondo vale per tutto, anche caricare la lavastoviglie) quello deve essere.
Non scherzo mai sul cibo. L’ho sempre preso maledettamente sul serio ascoltando anche i racconti della nonna paterna, Emma, trentina, classe 1896, una che ha attraversato due guerre mondiali e ha conosciuto la vera fame. Con lei stavo bene perché diceva che gli ricordavo suo fratello, lo zio Dario, e suo marito, il nonno Ciro, sopra nella foto, due che “davano soddisfazione quando c’era da mangiare”. Non si tiravano mai indietro. E io nemmeno, salvo i pranzi in famiglia.