L’unico vero vantaggio dell’età, di quando hai superato i cinquanta, è il bagaglio di ricordi che porti con te. Guai, però, a sentirsi un reduce, uno che ha tutto da insegnare: io cerco di usare la memoria per dare storicità e peso alle situazioni che vivo di volta in volta, ma poi vivo nel presente. Dopo tanti anni di esperienza, quando qualcuno mi dice che un cuoco è bravo, io subito mi domando: “Ma bravo rispetto a chi?”. Se uno corre da solo vince qualsiasi gara, ma non troverà mai nessuno che lo applauda. Il confronto è sempre necessario, le vere sfide devono avere tanti avversari dello stesso valore. E nella ristorazione vince chi ha il ristorante pieno e la gente contenta a fine serata di pagare conti importanti perché ha mangiato bene. Quando ti trovi male, invece, anche pochi euro ti sembrano sprecati.
Parlando di storie di chef che hanno lasciato il segno non posso dimenticare i Cerea: la grandezza di questa famiglia di ristoratori – prima con il padre Vittoriosul ponte di comando e poi con i figli Enrico, Roberto e Francesco – non l’ho mai misurata in stelle, ma in sorrisi. Li frequento da quando avevo vent’anni e loro avevano appena aperto sul sentierone di Bergamo. Vittorio Cerea aveva lavorato a Venezia e lì aveva capito quanto fosse buona la cucina di pesce. Fu il primo a portarla a Bergamo e a proporla a una città che tende a chiudersi molto in sé stessa.
Quando, nel gennaio del 1980, lasciai la collaborazione con il Corriere della Seraper essere assunto alla redazione sportiva del Giornale, una delle mie prime trasferte fu proprio a Bergamo. Ovviamente pranzai Da Vittorio. Chiesi un assaggio di cinque o sei primi, conto 16 mila lire. In verità era un po’ più alto, ma non mi pareva giusto farmi rimborsare una mia voglia, che andava oltre il mangiare un boccone prima di un servizio. Di norma chi la domenica pranzava Da Vittorio – magari con famiglia, nonni e zii al seguito – arrivava a…
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