Nato vicino alla Stazione Centrale, quando non avevo compiuto ancora tre anni i miei genitori – complice una madre che faceva la pittrice – si erano trasferiti in via Borgonuovo, nel centro di Milano e a ridosso del cuore di Brera, in una casa che avremmo lasciato a fine 1979. Data importante, perché non solo si cambiò indirizzo, ma il 26 dicembre di quell’anno entravo per la prima volta nella redazione sportiva de Il Giornale, direttore Indro Montanelli.
A quei tempi ad ogni via corrispondeva un mondo a sé: Brera era un quartiere, via Solferino un altro, via Palermo un altro ancora, nonostante la distanza fosse minima.
Se uno andava vicino all’Accademia di Belle Arti a prendere un caffè al bar Giamaica era per respirare l’arte, mentre se volevi fare “il signore” ti spingevi fino a via Monte Napoleone. La Milano di allora vedeva, ad esempio, un fabbro, un falegname e un carbonaio nella sola via Fiori Chiari.
Nella mia testa di giovane studente seguivo le stesse logiche dei Romani e dei primi cristiani. Come allora, quando più ti allontanavi dal Mediterraneo e più tutto diventava terra ignota, così era per me: già andare al cinema Paris in Largo la Foppa, distanza un chilometro, era un viaggio in una realtà diversa.
Nella mia mente mitizzavo i locali in cui andavano a cena i miei genitori: impossibile essere invitato al… Continua a leggere qui.