Quando ho visto il film Il Diavolo veste Prada mi colpì la scena in cui la giovane protagonista e la diabolica redattrice di moda Miranda Priestly sono impegnate a scegliere tra due cinture da abbinare a un capo. Miranda solleva le cinture e le guarda attentamente. Sono entrambe azzurre, ma di sfumature leggermente diverse. La giovane Andrea ridacchia con sufficienza. “Lo trovi divertente?” chiede Miranda. “A me sembrano assolutamente identiche”, risponde la ragazza. La risposta della donna equivale a una depilazione fatta con la fiamma ossidrica, la brucia letteralmente, ricordandole che, tre anni prima, i più grandi stilisti dell’Alta moda avevano decretato che quello sarebbe stato il colore di punta della stagione. Prima le passerelle, poi il prêt-à-porter e, come terza tappa, i cestoni delle offerte dei grandi magazzini, dove sarebbe stato acquistato da sciacquette piene di sé venute a cercare lavoro a Manhattan.
A me successe qualcosa di simile grazie al Milan. Il mondo del pallone, e dello sport in generale, non si sono mai distinti per una particolare attenzione all’alta cucina. Per anni e anni l’allenamento poteva essere tecnico o atletico, in campo con il pallone o in palestra con gli attrezzi, quello che poi veniva consumato a colazione, pranzo o cena dagli atleti era di una banalità desolante.
I carboidrati e la pasta poco prima della gara, la carne nei giorni di allenamento, perché più lunga da digerire, tanta verdura e tanti zuccheri per tirarsi su. Lasciamo stare il lato oscuro del doping, che certo non è più ristorazione e buona tavola. Ma al Milan qualcosa stava cambiando. Con l’avvento di Silvio Berlusconi, febbraio 1986, la squadra modificò letteralmente il rapporto con il…
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