Finalmente non sono arrossito per l’organizzazione della selezione italiana per il Bocuse d’Or. Finalmente una competizione allestita bene. Finalmente finalmente finalmente. E’ successo ieri, domenica 1 ottobre, ad Alba, stessa realtà di due anni fa ma con tutto nelle mani degli enti locali, con la Fiera del tartufo in prima fila e la Regione Piemonte sullo sfondo visto che Torino ospiterà nel giugno 2018 la finale europea.
Ha vinto Martino Ruggieri, come raccontato qui, la delusione sul volto di Paolo Griffa e il suo team era evidente anche da lontano, contenti Giuseppe Raciti e Roberta Zulian lì per partecipare più che per vincere, l’esatto contrario dei primi due.
Mi è piaciuta la tappa 2017 ad Alba perché sono da sempre convinto che se l’Italia partecipa al Bocuse d’Or, una delle massime espressioni della potenza gastro-celebrativa francese, prima edizione nel 1987 quando non erano previste le eliminatorie nazionali, o si organizza bene o è meglio lasciare perdere.
Per capirci: mai un nostro cuoco ha superato le qualificazioni continentali e parliamo di 14 – quattordici! – posti. Letteralmente non dovrebbe esistere, invece è sempre stato così tanto che nelle ultime edizioni da Lione non hanno più ripescato figura alcuna. Tanto l’italiano lottava per non arrivare ultimo. I cugini hanno avuto pietà di noi, evitandoci ulteriori figuracce.
E adesso che si sono fatte le cose per bene, con tanto di accademia presieduta da Enrico Crippa per procedere senza sorprese negative, non bisogna passare a sentimenti opposti. Non si è vinto ancora nulla e per vincere qualcosa ne passerà di tempo. Un numero zero, una svolta. Impossibile che Ruggieri il prossimo giugno non si qualifichi per Lione gennaio 2019, non fosse altro che lavora da Yannick Alleno a Parigi, uno che il Bocuse lo vinse nel 1999. Poi tutto sarà da scrivere. Però di certo non susciteremo compassione o pena, impulsi bruttissimi. Ci voleva proprio.
Notarella finale: in una giuria di trenta chef, Crippa, Cracco e Matthew Peters, statunitense vittorioso il gennaio scorso, presidenti, quindi una metà a giudicare le quattro preparazioni di carne e l’altra a fare altrettanto con quelle vegetali, Pietro Leemann ha fatto un passo indietro perché, lui vegano, aveva scoperto che gli avrebbero servito un uovo in un riso e verdure.
Lo capisco benissimo, però lo stesso trovo la sua un’occasione persa. Quando un concorso come questo apre al mondo veg un uovo stona, però lo chef massima espressione dell’alta cucina naturale poteva violentarsi, farlo presente in pubblico e perorare fino in fondo la causa vegetariana.