Orvieto e la sua rupe, il Duomo e il Pozzo di San Patrizio, chiese e palazzi, piazze e vie strette nelle quali è bello perdersi, il suo vino e le sue tradizioni in cucina, ad esempio gli umbrichelli al sugo di cinghiale, i suoi locali, storici come i Sette Consoli, e nuovi come Arso, del quale ho appena scritto qui, e Coro, inaugurato nell’estate 2024, 30 coperti, 2 piani, 1 sala privata. Distano tra loro duecento metri, Arso guarda la cattedrale, Coro è più all’interno, in Via dei Gualtieri, ed è collegato con Palazzo Petrvs, un boutique hotel di proprietà dell’imprenditore Raffaele Tysserand.
Coro perché ricavato in una chiesa sconsacrata risalente al Cinquecento e a suo tempo dedicata a San Giuseppe, patrono orvietano. Danneggiata il secolo scorso, è tornata a vivere, come ristorante, grazie all’architetto Giuliano Dell’Uva che ha integrato tra loro momenti antichi e nuovi inserti, un lavoro così ben fatto da ricevere il Prix Versailles 2025, unico italiano tra sedici in un premio dedicato all’architettura ristorativa. Poi va da sé che non metto piede in un luogo bello ma con una cucina insulsa.
Per fortuna Coro è bello e buono, merita. Lì si esprimono Francesco Perali in sala e Ronald Bukri in cucina. Hanno girato molto, soprattutto lo chef, fino a iniziare a pensare, scollinata la pandemia, a diventare soci in una realtà tutta loro. Il risultato? Coro, un coro particolarmente intonato. Ha detto Francesco: «La nostra filosofia si esprime in particolare attraverso tre piatti storici, risultato del bagaglio culturale di Ronald e perfette sintesi della filosofia che si intende promuovere con la sua cucina basata su semplicità, almeno apparente agli occhi dell’ospite, ed equilibrio tra gli…
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