Una decina di anni fa vinsi una scommessa. Ero alla presentazione della guida Michelin a Milano e al mio tavolo c’era l’allora responsabile generale Derek Brown e così ne approfittai per chiedergli perché la sua pubblicazione a Ragusa non segnalasse Il Duomo, locale – già allora strepitoso – di Ciccio Sultano e del socio di un tempo Angelo Di Stefano. Era con noi anche un responsabile dell’edizione italiana che mi corresse: “Sultano nella guida c’è”. Ma io ero così convinto del contrario che lo sfidai. E vinsi.
Ci sono posti che diventano importanti proprio per il cuoco che vi splende, ma che all’inizio nessuno fila. Il Duomo a Ragusa era uno di questi.
Ciccio Sultano non ha mai conosciuto suo padre: “Mi ha lasciato però un cognome che tutti si ricordano”. E così è cresciuto partendo assolutamente da zero con dentro una carica feroce che gli fa aggredire e mordere ogni attimo della giornata. Non puoi chiedere raffinatezza, passo tranquillo e pazienza a chi ha conosciuto la povertà e ha dovuto fare a pugni con la vita per farsi strada.
C’è chi ha preso a prestito una frase di Giovanni Falcone, il magistrato ucciso dalla mafia, per raccontare questo chef: “Se ci si rendesse conto che il siciliano è prima di tutto siciliano e poi medico, avvocato o poliziotto, potrebbe essere capito meglio”. È così anche per Ciccio.
Nel mondo della gastronomia, che da una ventina di anni chiede ai cuochi di alleggerire e semplificare i loro piatti, levando il superfluo, cancellando ogni traccia di inutile per esaltare i due o tre tocchi principali, questo ragusano non solo non toglie, ma addirittura aggiunge. Sarà che dove vive lui è il trionfo del barocco, sarà per la sua indole, fatto sta che ogni sua proposta è la stratificazione culinaria di più culture, ingredienti, sapori. La sua simbiosi con la terra è totale.
Non ha letteralmente senso per Ciccio un ingrediente nella sua fiera purezza. Non lo vedremo mai proporre un pesciolino fritto e…